Di chi è la proprietà dell’Edipo Re di Renoir?
Pubblicato il: 4/20/2021
È stata la sesta sezione civile della Suprema Corte, presieduta dal giudice Pasquale D'Ascola, a dare ragione all’architetto e collezionista asolano Giorgio Zanesco, assistito dall'avvocato Lodovico Fabris, contro gli eredi Mazzi di Roma assistiti dall’avvocato Stefano Sablone.
La vicenda, che riguarda la contesa proprietà del dipinto intitolato Edipo Re del noto pittore Renoir, era nata nel 2010 quando i fratelli Giorgio, Alessandro E Francesca avevano richiesto al Tribunale di Treviso la condanna dell’architetto Zanesco alla restituzione del dipinto che nel 1984 era stato trafugato da ignoti dalla dimora romana dei loro genitori. Il Tribunale di Treviso aveva respinto le tesi della difesa del collezionista asolano, secondo cui l’architetto Zanesco aveva acquisito il dipinto a titolo di successione della madre, ovvero per usucapione. Così, con sentenza del 2014, l’aveva condannato alla restituzione del quadro.
Nel frattempo il procedimento penale, avviato a carico del collezionista per il reato di ricettazione, era stato sospeso in attesa della soluzione della causa civile relativa alla proprietà del dipinto.
Nel 2015 la Corte d'appello di Venezia, chiamata a pronunciarsi su ricorso dell’architetto Zanesco contro la decisione di Treviso, aveva confermato la decisione di primo grado, considerando prive di fondamento le contestazioni del collezionista. I fratelli Mazzi, che avevano agito per il recupero della refurtiva in qualità dei successori dei genitori, avevano dimostrato l’identità tra il dipinto rubato nella casa romana dei coniugi nel 1984 e quello nel possesso del collezionista. Si trattava, infatti, del medesimo Edipo Re di Renoir che, dopo essere stato acquistato ad un’asta da Sotheby’s nei primi anni ‘80 da parte della società Falqui Development and Consulting, era stato sottratto dalla casa romana dei coniugi Mazzi-Cardarelli nell’aprile del 1984.
La Suprema Corte, con la sentenza pubblicata lo scorso 04 febbraio, ha accolto il ricorso del collezionista e cassato la sentenza di secondo grado, rinviando alla Corte di Appello di Venezia per una nuova pronuncia. Secondo la Cassazione, infatti, la domanda di restituzione di un bene già oggetto di furto, svolta nei confronti del soggetto che si trova nel possesso del bene, introduce un'azione di rivendica della proprietà e non di restituzione. Secondo la giurisprudenza consolidata «l'azione personale di restituzione, come già dice il nome, è destinata a ottenere l'adempimento dell'obbligazione di ritrasferire una cosa che è stata in precedenza volontariamente trasmessa dall'attore al convenuto, in forza di negozi quali la locazione, il comodato, il deposito e così via, che non presuppongono necessariamente nel tradens la qualità di proprietario. Essa non può pertanto surrogare l'azione di rivendicazione, con elusione del relativo rigoroso onere probatorio, quando la condanna al rilascio o alla consegna viene chiesta nei confronti di chi dispone di fatto del bene nell'assenza anche originaria di ogni titolo. In questo caso - continua la sentenza - la domanda è tipicamente di rivendicazione, poiché il suo fondamento risiede non in un rapporto obbligatorio personale inter partes, ma nel diritto di proprietà tutelato erga omnes, del quale occorre quindi che venga data la piena dimostrazione».
I fratelli Mazzi, invece, non avevano agito in rivendica ma quali successori dei genitori, pertanto, l'onere della prova a loro carico si limitava alla dimostrazione dell'identità tra il dipinto rubato in casa dei genitori nel 1984 e quello sottoposto a sequestro penale, già nel possesso dello Zanesco. «La Corte d'appello - si legge in sentenza - è quindi incorsa in errore nella qualificazione della domanda dei germani Mazzi come azione restitutoria e non come rivendica, con le ovvie ricadute in tema di onere probatorio. E infatti, dopo aver dato atto che mancava la prova documentale del trasferimento del dipinto dalla società che l'aveva acquistato all'asta a Dario Mazzi, padre degli attori, la Corte territoriale ha ritenuto tale carenza irrilevante “proprio perché gli attori non hanno agito in rivendica ma per il mero recupero del possesso della refurtiva”. Rilevato l'errore nella qualificazione della domanda, è perfino ovvio che il possesso del dipinto da parte dei Mazzi-Cardarelli nel 1984, epoca del furto, non valga a dimostrarne anche la proprietà».
Processo da rifare dunque, questa volta con l’onere per i fratelli Mazzi di dimostrare il modo di acquisto della proprietà del dipinto, dato che il principio del “possesso vale titolo” richiede, oltre al possesso in buona fede, anche la prova dell'esistenza di un titolo astrattamente idoneo al trasferimento del diritto di proprietà.