Il Consiglio di Stato ha respinto il ricorso di Regina S.r.l.
Pubblicato il: 7/6/2022
Regina S.r.l. è stata rappresentata nel contenzioso dagli avvocati Roberto Massari e Paolo Rolfo mentre il Ministero per i beni e le attività culturali e ambientali e l’Ufficio centrale per i beni archeologici, architettonici, artistici e storici sono stati difesi dall’Avvocatura generale dello Stato.
L’oggetto del presente giudizio è costituito dal decreto ministeriale del 9 dicembre 1997, nella parte in cui il Direttore Generale dell’Ufficio centrale per i beni archeologici, architettonici, artistici e storici ordinava alla società La Regina S.r.l. (di seguito anche la società) la demolizione di alcune opere abusive ed insistenti nel Parco Baia delle Sirene, in località S. Vigilio del Garda, di cui la società aveva la gestione.
Avverso tale atto la società (unitamente al signor Guglielmo Guarienti quale proprietario del Parco) proponeva il ricorso n. 904 del 1998, proposto innanzi al T.a.r. per il Veneto, chiedendone l’annullamento per difetto di partecipazione procedimentale, mancanza del previo procedimento di rigetto della domanda di sanatoria, incompetenza, tardività e difetto di motivazione.
Costituitosi il Ministero per i beni culturali e ambientali in resistenza, il Tribunale amministrativo adìto (Sezione II) ha così deciso il gravame al suo esame:
- ha accolto il ricorso limitatamente alle opere diverse dai prefabbricati adibiti a w.c.;
- ha compensato le spese di lite.
In particolare, il T.a.r. ha ritenuto che:
- “il parere dell’Ispettorato Tecnico Centrale, posto a fondamento dell’implicito diniego di sanatoria e del conseguente ordine di ripristino, mentre contiene una adeguata motivazione con riferimento ai prefabbricati, ritenuti “antiestetici” e di “sgradevole impatto” (e ciò comprensibilmente alla luce delle fotografie depositate in atti), non si esprime con riguardo alle altre opere (muratura di sostegno, pontile in legno, cartello pubblicitario, attrezzature ricreative) pure oggetto dell’ordine di ripristino”.
Avverso tale pronuncia la società ha interposto appello, notificato il 20 ottobre 2015 e depositato il 12 dicembre 2014, lamentando, attraverso tre motivi di gravame, quanto di seguito sintetizzato:
I) il Tribunale non solo avrebbe fatto proprio il giudizio espresso dall’Ispettorato Centrale e trasfuso nel provvedimento impugnato, così incorrendo in difetto motivazionale, ma avrebbe anche espresso un inammissibile giudizio di merito;
II) il T.a.r. non avrebbe dato applicazione agli artt. 1 e 2 del d.m. n. 88/1987 laddove impone all’Ufficio Centrale di tener conto del giudizio espresso dai dirigenti periferici che in tal caso, per il tramite della Soprintendenza di Verona, è stato favorevole alla sanatoria;
III) il T.a.r. non si sarebbe avveduto della violazione del termine stabilito dal d.m. n. 495/1994 in 270 giorni per il compimento delle procedure volte alla emanazione degli ordini di riduzione in pristino.
L’appellante ha concluso chiedendo, in riforma dell’impugnata sentenza, l’accoglimento del ricorso di primo grado anche nella parte relativa ai predetti manufatti.
In data 16 novembre 2015 il Ministero per i beni e le attività culturali e ambientali e l’Ufficio centrale per i beni archeologici, architettonici, artistici e storici si sono costituiti.
In prosieguo di giudizio entrambe le parti hanno depositato memorie, parte appellante anche in replica, oltre a note d’udienza per chiedere rispettivamente: parte appellante l’accoglimento del gravame evidenziando che avrebbe sopperito alla necessità di dotare i locali destinati a servizi igienici attraverso dei box di modeste dimensioni dal minimale impatto estetico; parte appellata, evidenziando tra l’altro che il Ministero sarebbe competente in via esclusiva ad adottare i provvedimenti ai sensi dell’art. 2 del D.M. 8 agosto 1997, il rigetto dell’avverso ricorso.
In data 26 maggio 2022, parte appellata ha chiesto la spedizione in decisione della causa.
La causa, chiamata per la discussione alla udienza pubblica svoltasi con modalità telematica del 30 maggio 2022, è stata trattenuta in decisione.
L’appello è infondato.
Come esposto in narrativa, con il gravame si invoca la riforma della sentenza impugnata nella parte in cui il T.a.r. ha confermato il provvedimento demolitorio impugnato per la parte relativa ai prefabbricati destinati a wc., che l’Ispettorato Tecnico Centrale definito “antiestetici” e “di sgradevole impatto”.
Giova precisare che la parte accoglitiva della pronuncia appellata non è stata impugnata dal Ministero sebbene si sia costituito in giudizio per resistere al libello di controparte; in parte qua quindi la sentenza è passata in giudicato.
Con il primo motivo, avente rilievo centrale nell’economia del ricorso, parte appellante deduce il difetto di motivazione, evidenziando che l’organo dell’Ispettorato, peraltro discostandosi dal parere di contrario tenore della Soprintendenza, non avrebbe chiarito le ragioni che l’hanno indotta a ritenere i modesti manufatti in questione incompatibili con le caratteristiche estetiche dell’ambiente circostante, tanto da indurre il T.a.r. ad integrare tale motivazione mancante facendo leva sulla documentazione fotografica in atti.
A tale ultimo riguardo, va rilevata l’infondatezza del rilievo afferente ad un preteso sforamento dei confini che delimitano il sindacato giurisdizionale; è utile ripercorrere a tal uopo il tratto testuale della motivazione recata dalla sentenza impugnata, ove il T.a.r., sul punto, rileva che “il parere dell’Ispettorato Tecnico Centrale, posto a fondamento dell’implicito diniego di sanatoria e del conseguente ordine di ripristino,… contiene una adeguata motivazione con riferimento ai prefabbricati, ritenuti “antiestetici” e di “sgradevole impatto” (e ciò comprensibilmente alla luce delle fotografie depositate in atti)”.
E’ dato quindi agevolmente escludere ogni possibile forma di invadenza nella sfera della competenza riservata all’Amministrazione il T.a.r. non avendo fatto altro che valorizzare il quadro lessicale che connota l’atto impugnato e che, per le medesime ragioni evidenziate dal giudice di prime cure, risulta immune alla formulata censura del difetto motivazionale. Le formule utilizzate (“antiestetici” e “di sgradevole impatto”) risultano adeguatamente esplicative, seppure in un quadro di sintesi, delle ragioni poste a base del giudizio estetico sfavorevole, con conseguente infondatezza della censura della mancanza di adeguata motivazione.
15. Infondato è anche il secondo motivo, col quale si torna a dedurre che l’Ufficio Centrale si sarebbe arrogato un potere sanzionatorio che in realtà non gli spettava dopo che la Soprintendenza, esprimendosi sulla relativa domanda, si era pronunciata in favore della sanabilità delle opere. Parte appellante invoca, in particolare, gli artt. 1 e 2 del D.M. 88/1987 laddove attribuiscono tale competenza agli organi periferici.
L’infondatezza del rilievo si deve alla stessa formulazione dell’art. 2 testé citato, che così statuisce: “non è oggetto di delega nella fattispecie di cui al precedente art. 1 lett. a) - e c), la comminazione delle sanzioni amministrative previste dall'art. 59 della l. n. 1089/1939 alla cui applicazione l'Ufficio Centrale provvederà sulla base delle proposte che i dirigenti periferici faranno pervenire al riguardo". Il contributo consultivo è, infatti, descritto dalla statuizione ministeriale come necessario ma non vincolante cosicché non può l’appellante fondatamente dolersi dell’esito del procedimento sol perchè distonico rispetto a quello innescato dalla domanda di sanatoria.
Infondato è, infine, il terzo motivo, col quale si deduce la violazione del termine per la conclusione del procedimento, non avendo questo, in mancanza di un’espressa previsione in tal senso, natura perentoria con la conseguente pretesa consumazione del potere amministrativo dopo il suo decorso. Assurge infatti al rango di jus receptum il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui “i termini stabiliti dalla legge ovvero da altre fonti normative di rango subordinato - a maggior ragione se fissati autonomamente a livello procedimentale dalla stessa p.a. procedente - devono intendersi come ordinatori, salvo che la legge stessa espressamente li dichiari perentori ovvero colleghi esplicitamente al loro decorso un qualche effetto decadenziale o comunque restrittivo ossia, primi tra tutti, l'impossibilità per colui che viola il termine di poter ottenere dall’amministrazione l'accoglimento di una propria domanda, ovvero l’inefficacia degli atti compiuti dall’amministrazione medesima dopo la scadenza” (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 21 aprile 2022, n. 3034).
In conclusione, l’appello è infondato e deve essere respinto.
Per quanto riguarda le spese del presente grado di giudizio, secondo il principio della soccombenza, vanno poste a carico di parte appellante nella misura stabilita in dispositivo, applicando i parametri di cui al regolamento n. 55 del 2014.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto (n.r.g. 8919/2015), lo respinge.
Condanna l’appellante alla rifusione, in favore del Ministero appellato, delle spese del presente grado di giudizio, che liquida in euro 2.500,00 (duemilacinquecento/00), oltre agli accessori di legge (I.V.A., C.P.A. e rimborso spese generali al 15%) se dovuti.